sabato 5 maggio 2007

Dimmi che lingua parli, ti dirò che colore vedi


Una ricerca condotta da un gruppo di psicologi presso la Stanford University di Palo Alto ha stabilito che c'è una relazione molto stretta tra l'idioma di una popolazione e la percezione cromatica.

Gli studiosi hanno appurato, sulla base di performance pratiche che i soggetti sperimentali dovevano compiere, che la definizione che le singole persone danno dallo stesso colore dipende dalle categorie concettuali che la loro lingua madre mette loro a disposizione.

Il campione, costituito da individui di lingua inglese e russa, dovevano distinguere differenti toni di blu indicando quali fra tre quadrati colorati fossero uguali.

A differenza dell'inglese, il russo non possiede una singola parola per indicare il blu, ma dà al aprlante la possibilità di optare o per un termine che indica il blu chiaro o per quello che indica il blu scuro, affinando così la capacità di discriminazione in determinati contesti.

I ricercatori hanno rilevato infatti che le persone di madrelingua russa discriminano più rapidamente i colori nel caso in cui uno dei due è blu chiaro e l'altro blu scuro, che non quando entrambe le sfumature sono dello stesso tipo (entrambe blu chiaro o scuro).

Per i soggetti di madrelingua inglese non si riscontra invece nessun tipo di differenza nei tempi di reazione e di identificazione nei due casi sopra citati.

Si è confermato anche come un'interferenza linguistica causi una diminuzione nella rapidità di risposta emessa dai soggetti: se viene chiesto loro di ripetere una serie di numeri, la prestazione peggiora, cosa che non accade se sono impegnati in altri compiti di natura non verbale, come ad esempio quelli di natura spaziale.

Tutto ciò ribadisce come non vediamo solo attraverso gli occhi, ma che il processamento della nostra mente, connesso ai processi di categorizzazione che abbiamo appreso e consolidato entro la nostra matrice culturale, occupi sempre il ruolo da protagonista.

Per leggere l'articolo che riporta la notizia originale, cliccate qui.

Foto by adrian patrick

venerdì 4 maggio 2007

La prossima band di successo sarà creata online


Emi Publishing lancia STARt, un concorso online alla ricerca del nuovo Justin Timberlake o della futura Christina Aguilera.

A partire dal 15 aprile infatti, gli utenti potranno uploadare su QOOB la loro musica che verrà ascoltata e giudicata da un team creato per l'occasione, composto da membri dello staff del sito e di EMI Publishing.

I 4 ragazzi più apprezzati avranno la possibilità di registrare gratis una canzone in uno studio professionale per poi realizzare autonomamente un video.

In palio per chi si aggiudica la corsa al podio c'è un contratto con la Emi Publishing e la possibilità di girare un secondo video partendo dalla base di 15.000 euro; budget che, per un emergente, non è una cifra da trascurare.

STARt ha sfruttato la naturale tendenza di internet a fare da "talent scout" per i suoi utenti più meritevoli: è già accaduto infatti che aspiranti cantanti che avevano immesso la propria performance su YouTube siano stati contattati dagli esperti del settore, i quali avevano scovato in loro delle interessanti potenzialità musicali.

Il vantaggio reale che questo progetto offre ai contendenti è che la valorizzazione non riguarda solo il talento musicale, ma viene premiato anche lo spirito imprenditoriale e organizzativo, la capacità di industriarsi per tradurre in immagini il proprio brano e la campagna di autopromozione che il singolo riesce a costruire intorno alla sua figura potendo contare solo sulle sue forze.

Emerge quindi un nuovo aspetto: concentrarsi sull'abilità canora non basta più, è come viene trasferita al pubblico il fattore cruciale.

Riprendendo quindi una delle più classiche lezioni di marketing, notiamo come non sia più sufficiente solo la bontà dei contenuti, ma come anche la pubblicità, la presentazione e il packaging esercitino un notevole peso nel determinare il succeso di un prodotto.

Foto by catmachine

giovedì 3 maggio 2007

Videogiochi a scuola: l'Italia è ancora indietro


L'idea che un videogioco possa essere applicato alla didattica non è nuova, ma la definizione "videogioco educativo" lascia perplesso più di un insegnante.

Eppure particolari tipologie di videogame hanno riscosso molto successo all'estero e si sono rivelate utili al fine del potenziamento cognitivo degli studenti, come nel caso di Ayiti - The Cost of Life, un gioco che simula le difficoltà di vita ad Haiti, rivolto al target 11-18 anni.

Questa iniziativa è stata lanciata nelle scuole di New York nel 2005 e gli studenti coinvolti nella fase sperimentale hanno progettato le dinamiche di gioco, poi sviluppate e perfezionate da professionisti del settore, i quali hanno seguito le disposizioni fornite dagli allievi. Attualmente Ayiti è a disposizione di tutti gli insegnanti della Grande Mela che ne vogliano fare uso.

Da programma didattico, ogni ragazzo ha a disposizione mezz'ora per decidere come far sbarcare il lunario ad una famiglia haitiana e il resto del tempo viene dedicato ad approfondire le tematiche incontrate durante la simulazione (problemi di lavoro, di mantenimento, di salute ecc.) mediante una discussione in classe.

Un buon videogioco scolastico permette di simulare il problema, tentare approcci alternativi per risolverlo e si accompagna ad un confronto in aula di come gli alunni hanno valutato quest'esperienza.

Ayiti è l'emblema di come la didattica tradizionale possa fondersi con elementi innovativi, aggiungendo un plus valore alle lezioni "classiche", tuttavia nel nostro paese questa possibilità non è ancora stata presa in considerazione seriamente.

Foto by eliane_alhadeff's

mercoledì 2 maggio 2007

Non potrai più dimenticare il tuo vissuto online


La nuova funzione si chiama Web History: una memoria di tutta la storia della navigazione di una persona, di ogni sito visitato, quando e per quanto tempo.

Per attivarlo bisogna disporre di un account Google e poi magicamente ogni volta che si vorrà andare a rintracciare un sito d’interesse che non abbiamo salvato tra i preferiti o ripercorrere le tappe che hanno contrassegnato le fasi di una ricerca, potremo farlo in un batter d’occhio.

Il vantaggio che si offre all’utente è notevole e trasparente: trovare in un tempo brevissimo
ogni pagina consultata, ogni immagine scaricata e quant’altro abbiamo compiuto durante la nostra permanenza online.

Inoltre il motore di ricerca offre mediante questo servizio un’altra interessante opportunità; non si limita infatti a tenere un diario delle operazioni dei naviganti, ma esegue autonomamente delle statistiche sulla base della cronologia.

Web History elabora automaticamente la classifica dei 10 siti più visitati, delle 10 query più utilizzare e dei click più frequenti e illustra anche l’andamento mensile, giornaliero e orario dell’attività in rete dell’utente. Possono essere creati anche dei segnalibri per evidenziare i siti preferiti e aggiungere etichette e note personali.

Tuttavia qualche zona d’ombra emerge. In primis questo servizio alimenta il dubbio che anche chi non è autorizzato possa avere un facile accesso ai dati privati, soprattutto nel caso di computer condivisi.

Dopo l'acquisto di Doubleclick (vedi post in merito), sorge qualche dubbio sul possibile utilizzo dei percorsi virtuali degli utenti per fini commerciali, in quanto se le consuetudini degli internauti cadono nelle sapienti mani di un network per l’acquisto di pubblicità, è quasi certo che gli inserzionisti potranno gioire puntando su un tipo di promozione sempre più mirata e personalizzata, mentre gli utenti potrebbero riportare delle reazioni di fastidio simili a quando vedono la casella mail piena di spam.

Comunque nel caso ci si senta “braccati”, una via per la salvezza esiste: è un semplice pulsante che consente di disattivare o sospendere web history, e i dati fino ad allora memorizzati potranno essere completamente o parzialmente cancellati dall’utente.

Il dilemma rimane aperto: la bontà di questa iniziativa sarà veramente messa a rischio dall’esigenza di tutelare la propria privacy?

Foto by Adam Mulligan

lunedì 30 aprile 2007

Destino segnato per i figli di madri alcolizzate o tossicodipendenti

I rischi che il consumo di alcol o sostanze psicoattive in gravidanza può causare nel nascituro, vanno a delinearsi in maniera sempre più chiara, tra i principali: organi genitali maschili più piccoli della norma, tendenza all’aumento di peso, ritardo mentale e disturbi psichici.

A elencare le conseguenze sulla prole degli abusi delle primipare, sono due studi coordinati dallo psichiatra infantile Hans-Christoph Steinhausen dell'Università di Zurigo, pubblicati sul 'The Journal of Pediatric' e sull'European Addiction Research'. Si tratta dei primi risultati sugli effetti a lungo termine della dipendenza delle future madri da alcolici o droghe pesanti.

Uno studio longitudinale, che ha monitorato i bambini dai primi mesi di vita fino ai 20 anni, ha accertato che i figli di donne alcoliste nel periodo della gravidanza riportano alcuni difetti tipici.

Se le deformazioni del cranio e del viso si correggono da sole col tempo, altre anomalie restano 'indelebili', in quanto i maschi rimangono più bassi della media e i loro organi genitali non raggiungono le dimensioni standard, mentre le femmine mostrano una spiccata tendenza all’accumulo di grasso corporeo.

Per quanto concerne lo sviluppo mentale, anch’esso può risultare alterato; infatti in questo campione si registra un tasso elevato di handicap psichici e di disturbi dell'attenzione e iperattivita'.

La seconda ricerca, riguardante nello specifico la dipendenza da droghe pesanti durante i 9 mesi di attesa, il team di Steinhausen ha dimostrato che in età scolare i figli di queste donne hanno un QI inferiore a quello dei loro coetanei e che il rapporto tra le due variabili è direttamente proporzionale: più la madre ha consumato eroina o metadone durante la gestazione e meno il suo bimbo disporrà di intelligenza pratica.

Foto by fallenwattle

domenica 29 aprile 2007

Un sito per la pace


L'obiettivo di face2face è dare voce a israeliani e palestinesi permettendogli di superare ogni attrito, in nome del desiderio che antrambi condividono: la pace.

Questo progetto artistico vede come protagonisti i volti israelo-palestinesi di persone che svolgono la stessa mansione o hanno lo stesso stile di vita, per sottolineare come le giornate di un tassista che si guadagna da vivere sfrecciando sulle autostrade israeliane e il suo collega palestinese abbiano molte più cose in comune di quante non li dividano, esattamente come un professore che insegna ebraico e uno che insegna arabo o un musicista che suona a Tel Aviv e uno a Beit Sahour.

Il web è uno strumento potente e se per tanto tempo si è sottolineato quanto esso potesse separare, ad esempio "raffreddando" i rapporti umani a favore di quelli in chat, oggi capiamo quanto una iniziativa del genere possa unire.

Se si riflette sulla vita di tutti i giorni, ci si rende conto come gli affanni, le gioie, le sorprese e i tormenti siano universali e frammentare l'entità Uomo sulla base di ideologie politiche, etnie o fede religiosa a confronto appare fortemente riduttivo.

Ritratti di individui che alimentano le stesse speranze e danno spazio agli stessi pensieri divisi però da un muro e dall'emblema di una convivenza che sembra impossibile: internet non fa miracoli, ma se riuscisse a far compiere anche solo un piccolo passo verso una riconciliazione, sarebbe già un risultato prodigioso.

Per vedere il trailer del progetto, cliccate qui.

Foto by boris joseph